Era una giornata come le altre all’Unità di Strada della Fondazione Villa Maraini-CRI, in stazionamento a Tor Bella Monaca periferia della Capitale. Primo pomeriggio, quando rallenta il flusso di persone, intente a prendere una siringa sterile e riconsegnare quelle usate, ma soprattutto a ricevere un supporto psicologico e il tempo, a volte lento, scivola via.

Quattro chiacchiere con gli operatori, a volte un sorriso, l’attenzione sempre a mille su ciò che accade intorno. I soliti giri di ronda nel parco con la Jeep di Croce Rossa in uso a Villa Maraini-CRI che non si ferma mai, pronta ad aiutare chiunque ne abbia bisogno.

Poi, in un istante, tutto cambia: un uomo va in overdose.

Era cianotico, violaceo, non respirava.

Completamente steso a terra, ad un passo dal poter morire sotto i miei occhi.

Gli operatori, alcuni seduti nel camper, altri in giro nel parco, intenti nelle loro mansioni.

Poi è stata questione di un attimo, tutti si sono mossi alla velocità della luce.

Questo accade perché gli operatori del camper dell’Unità di Strada, riescono a guardare oltre quello che noi, volontari e tirocinanti, riusciamo a vedere con i nostri occhi.

Con il loro impegno quotidiano ci insegnano che l’attenzione, in questo lavoro, non è mai troppa e non bisogna mai perderla.

Infatti, mentre sembrano distratti o indaffarati, tengono sotto controllo tutto ciò che accade intorno a loro ed è proprio questo che salva le vite di quegli esseri umani più vulnerabili.

La situazione, in un attimo, ha cambiato volto e colore.

In un istante Giancarlo, responsabile dell’Unità di Strada e Beatrice, operatrice sociale, erano accanto a quell’uomo, pronti a preparare ciò che serviva per rianimarlo: il Naloxone, farmaco salvavita, le siringhe, il marsupio, con il necessario per il supporto alla respirazione.

 

In quel momento, tutto si muoveva intorno a me come in una danza, loro sincronizzati ma tesi, tra le mani il peso di una vita da salvare.

Tutto si è svolto tra delicatezza e tensione.

Questione di attimi, ascoltare il respiro che non riprendeva.

La prima fiala di Naloxone, la seconda, la terza. Fino ad 8 fiale.

Ancora nulla.

Loro fermi di fronte al respiro che sceglieva se tornare o meno a riempire i polmoni di quell’uomo, di cui non sapevamo neanche il nome.

Avevo paura, il mio cuore batteva a mille.

Stare faccia a faccia con la morte, come se fosse quotidianità per me, ma invece era cosa nuova, una cosa a cui abituarmi, da scoprire, da imparare.

Li vedevo muoversi con fermezza e sicurezza, osservavo, rubando con gli occhi il loro lavoro.

In quel momento, tra un Naloxone e l’altro, si poteva fare solo una cosa: aspettare.

Aspettare ancora.

Poi, finalmente, il colore rosa sul viso.

Un rantolo che torna ad essere respiro.

La vita si riaffaccia.

Franco, così si chiama, riapre gli occhi.

Ha una bambina di 4 anni a casa e un dolore logorante, che lo mangia da dentro e che non riesce in alcun modo a combattere.

Ogni volta che tocca il fondo cerca, inconsapevolmente, la morte per la disperazione.

Soffre e forse neanche lo percepisce di soffrire così tanto.

Per chi guarda da fuori gli operatori e il loro lavoro, lo stare ai margini del parco di Tor Bella Monaca, in giornate che sembrano interminabili, con qualunque condizione meteo…

Sembra difficile da capire, spiegarsi la loro motivazione a stare così.

Ma poi basta in un istante, un solo istante e tutto questo lavoro che loro fanno, ha un senso, il senso più grande di tutti: salvare vite umane.

Solo e semplicemente, grazie.

A voi che in quel momento mi siete stati accanto, mi avete affiancata nella paura e sostenuta, il mio grazie più grande.

Testo di: Gabriella Palumbo, psicologa della Comunità Terapeutica e volontaria all’Unità di Strada di Villa Maraini-CRI.

a cura di: Stefano Spada Menaglia, Area Comunicazione Fondazione Villa Maraini-CRI