L’esperienza di Laura Rosi, psicologa di Fondazione Villa Maraini
Venerdì 22 giugno 2018
Come ogni venerdì sera, negli ultimi tre anni, anche stasera usciamo in strada con il camper dell’Unità di Strada di Villa Maraini, ma sapendo che per questa volta non saranno i volontari di CRI a partire con noi, ma saremo noi a raggiungerli a Pomezia dove svolgono il loro servizio.
Dal primo incontro a Villa Maraini con questo gruppo di volontari, avvenuto lo scorso sabato durante il training a loro dedicato per diffondere la campagna “Meet, Test and Treat”, abbiamo sentito molto forte il loro spirito e desiderio di partecipare ed apprendere come intervenire sulla popolazione a maggior rischio di contagio di malattie come HIV ed HCV. Questo ci ha contagiati positivamente facendoci sentire come questo gruppo di volontari, guidati da Margherita, porti avanti la passione e lo spirito di Croce Rossa, che riesce a valicare le distanze di spazio e tempo, rendendo le persone molto più vicine.
Appena arriviamo a Pomezia, nel grande parcheggio davanti al supermercato dove avevamo appuntamento, veniamo accolti da un esercito di sorrisi e di volti conosciuti, incorniciati dalle divise. Sembrano una squadra, tutti in rosso, e scendono dal loro automezzo con passo svelto, senza trascinare mai i piedi.
Già nel tragitto da Villa Maraini a Pomezia, c’è un sentimento diverso rispetto ad altre sere, perché la prospettiva di lavorare con questi volontari che abbiamo formato, di supportare e di essere supportati, di spiegare nella pratica come procedere con questa attività, fa sì che la nostra motivazione aumenti in modo esponenziale.
Subito notiamo come questo gruppo abbia un rapporto solido costruito nel tempo con le ragazze che lavorano in strada: le chiamano per nome, conoscono le loro vite, le loro storie, e questo facilita enormemente il nostro intervento. Infatti, quando arriviamo le sex workers ci aspettano, sapendo perfettamente cosa proponiamo e questo essere radicati sul territorio del proprio Comitato rende enormemente più efficace il Servizio di test gratuiti e rapidi HIV ed Epatite C che andiamo ad offrire.
Arriviamo alla prima piazzola, un piccolo slargo dove tre ragazze già ci aspettano. C’è un furgoncino che vende panini lì accanto e nei piccoli tavoli di plastica sono seduti i camionisti che fanno la prima sosta della giornata. Mi avvicino per prendere dell’acqua fresca e questi signori dai volti stanchi mi fanno molte domane: “Scusi dottoressa, che state facendo? Date una mano a queste ragazze?”
Spiego loro di cosa ci occupiamo e mi sorridono dietro le birre ghiacciate, facendoci i loro complimenti per l’attività che svolgiamo.
“Gli autisti come noi si scordano spesso di mangiare. È una vita fatta di panini, nemmeno mi ricordo quando mi sono seduto a tavola a mangiare un piatto di pasta con calma. Nemmeno mi immagino queste povere ragazze come devono campare, ci sta sempre qualcuno che fa una vita peggiore della tua”. Questo mi dice con un sorriso stanco un signore che potrebbe avere la stessa età di mio padre, anche se nei suoi occhi un sottile velo di malinconia mi fa immaginare quanta strada lo possa separare dalla sua famiglia.
Le sex workers sono giovani, belle, nascondono la loro preoccupazione dietro espressioni imperturbabili, dietro sorrisi cristallizzati che nascondono la paura. Sono all’erta come prede in una riserva di caccia.
Sulla rotonda sono quasi nude, espongono i loro corpi con finta naturalezza, come se fossero altrove, come se quel corpo non fosse il loro.
Accade quasi sempre che, prima di salire sul camper, ci chiedano di potersi rivestire, quasi a vergognarsi della propria condizione, ma molto più probabilmente questa accortezza è dovuta al desiderio di sentirsi ‘umane tra gli umani’, ragazze come le altre che fanno un colloquio con dei professionisti che si occupano della loro salute.
Queste prime tre ragazze si comportano da amiche tra loro, ma più che un’amicizia sembrerebbe uno stato di necessità: il bisogno di non essere sole, di guardarsi le spalle, di condividere i dolori e le paure, compresa l’assurdità di essere esposte come manichini in una vetrina che però non ha protezioni e tutti possono toccare.
Seguendo il mezzo dei volontari, vediamo che si sono organizzati con dei pacchetti da lasciare alle ragazze, con dentro acqua e degli snack. Sono queste piccole cose che fanno la differenza,come il modo con cui ci parlano: gentili, sereni, e soprattutto autentici. Nel tempo ho imparato quanto l’autenticità sia un prerequisito fondamentale per entrare in relazione con chi lavora in strada, perché sono persone dotate di enorme sensibilità, capaci di cogliere ogni minima sfumatura comunicativa, anche -e soprattutto- quelle della sfera del non detto.
Mentre scrivo, momentaneamente seduta sul sedile del passeggero, alle mie spalle sento suoni familiari: le voci delle mie colleghe che parlano con le ragazze, fanno le domande dei questionari, scherzano facendo del loro meglio per mantenere quel clima di tranquillità e confidenza di cui c’è grande bisogno. Ogni notte è diversa, ma il filo rosso che le tiene tutte unite è anche fatto di questo, tutto nostro, modo di fare: parole gentili, risate e spontaneità.
Proseguendo incontriamo un gruppo di ragazze nigeriane, alte e statuarie, con i loro capelli intrecciati e i loro occhi tristi, forse anche spaesate dal non capire la nostra lingua. Daniela, nostra operatrice sociale, parlando inglese, aiuta la volontaria CRI di Pomezia, Margherita, nel porre le domande del questionario alle ragazze che, seppur apparentemente divertite nel vederla in difficoltà, cercano di aiutarla.
Le strade che percorriamo sono silenziose, desolate e desolanti. Sulla destra un parcheggio semi vuoto, ogni tanto passa una macchina, e non si capisce se vada, venga, o torni. C’è sempre un impercettibile rallentamento in prossimità del camper, ci guardano e forse si chiedono chi siamo, cosa facciamo. Forse molti degli uomini che guidano le macchine più diverse, dall’utilitaria al Suv, sono dei clienti abituali, o sporadici, o magari dei semplici curiosi.
In generale penso al fatto che se solo per un attimo si fermassero a vedere negli occhi di queste ragazze la conseguenza della loro azione, ovvero pagare per avere sesso, forse smetterebbero.
Queste ragazze, queste donne, nell’immaginario collettivo sono una cosa o peggio sono considerate desiderose di fare sesso, mentre la realtà è un’altra: sono donne rassegnate sedute su sedie di plastica, rannicchiate nei pressi di un fuoco acceso in una strada buia, con una bottiglietta d’acqua e la luce del telefonino come unica compagnia, in un silenzio assordante. Tutto sembra, fuorché che desiderino fare sesso. Tutto sembra, eppure ciò che loro vogliono non importa.
Il silenzio viene rotto dalla voce squillante dall’accento straniero di una ragazza, con un sorriso bianco che spunta dall’oscurità ed illumina anche noi:
“Ehi, ciao! Siete voi quelli dei test?”
D’improvviso si avvicina anche un gattino, che muovendosi teneramente tra le gambe dei colleghi riesce ad ottenere un cracker sbriciolato per placare la fame. Vorremmo quasi portarlo con noi, ma lo lasciamo tra le braccia della ragazza dal sorriso luminoso che, presolo in braccio,lo coccola mentre sembra raccontargli qualcosa. Due creature gentili sul ciglio di una strada desolata, che si riconoscono nei loro tristi destini e ci fanno venire un nodo in gola mentre ci allontaniamo.
Ripartiamo, e raggiungiamo di nuovo il mezzo della CRI, mentre il camper sussulta ad ogni buca delle strade dissestate di questa periferia che sembra essersi dimenticata di se stessa.
Accostiamo ad un’altra rotonda: una ragazza non vuole fare il test ma viene comunque a salutare la volontaria Margherita; le racconta di sé, di un’altra ragazza che è sparita dalla strada: “è una serata tranquilla, oggi non si lavora. Noi in Argentina amiamo l’Italia, non importa se è tutta un casino, tutta distrutta.”
È bello e terribile sentire le risate, le conversazioni normali, che queste donne sentono il bisogno di scambiare con noi. Si confidano, si raccontano,e vogliono anche parlare di cose semplici, per recuperare un senso,di normalità.
“Io mi metto sempre di là, in fondo alla strada. Sennò spesso mi insultano, perché sono transessuale. Magari mi lanciano le cose, bottiglie, uova. Io a 16 anni sono scappata di casa, e sono tornata col seno. A 14 anni sapevo già cosa volevo essere. In Argentina era proibito fare il seno ad un uomo, e bisognava pagare di più. Allora ho lavorato, lavorato, lavorato, finché non ho messo da parte tutti i soldi. Ed ora, comunque, sono quella che volevo, e dovevo essere.”
Sale sul camper una ragazza che sembra una bambina, indossa una specie di costume azzurro, si muove timorosa sui tacchi vertiginosi. Entra, incrocia il mio sguardo, e tira fuori un sorriso irregolare e dolce, e mi ricorda una bambina di cui ero molto amica, quando ero piccola.
Sono troppo buie queste strade, l’asfalto è pieno di irregolarità, le ragazze per venire verso di noi rischiano di cadere. “Dovremmo montare un faro. Noi facciamo i fuochi, ma mica per il freddo. Fanno paura queste strade così buie, scure.” In effetti, fanno paura.
Stasera, per un motivo o per un altro, siamo tutti un po’ più stanchi del solito. Ognuno con le sue preoccupazioni, con le sue fatiche, con una lunga settimana sulle spalle. Basta guardarci, per riconoscere negli occhi dell’altro la propria medesima stanchezza, ma anche la stessa voglia di andare avanti.
“Stasera torniamo a casa presto, eh! Mi raccomando.” Questa è la frase che Giancarlo ripete ogni venerdì sera, e non c’è venerdì in cui si rientri prima delle 3 di notte. Lo sappiamo tutti, ma glielo lasciamo dire, come un mantra. Questo come altre cose sono piccoli passi che piano piano ci permettono di sentirci più vicini, di conoscere le nostre fragilità e farci forza l’uno con l’altro.
Abbiamo quasi finito il nostro giro, ci mancano le ultime strade. Arrivano due ragazzi ubriachi, danno fastidio al gruppetto di ragazze in attesa della risposta dei test e che istintivamente si avvicinano a noi, quasi a cercare protezione.
“Ma voi ragazze non avete qualcuno che vi protegge? Vi fate forza fra voi? Forse potreste mettervi un pochino più avanti, dove c’è un po’ più di luce.” Daniela dà voce al pensiero che stavo facendo, ripetendo le parole di Anna, altra collega, senza averle sentite, e questo testimonia come tutti noi, ormai, notiamo e veniamo colpiti dalle stesse cose.
Come l’idea che,anche se tardi, ognuno di noi stasera tornerà a casa, nel proprio letto, fra le proprie cose, mentre queste ragazze no. Questa cosa ci risulta inaccettabile,e col nostro camper vorremmo poter fare di più, quasi avessimo la possibilità ed il dovere di risolvere tutte le ingiustizie con cui entriamo in contatto.
Sale una ragazza “Ciao cara, come stai?”. Ha una voce profonda, in netto contrasto con il suo corpo esile. Come le altre ragazze, racconta con naturalezza che tutti i clienti le chiedono rapporti non protetti, che ha subito spesso episodi di violenza, quasi sorprendendosi delle nostre domande, come se le risposte fossero scontate.
Come tutte le ragazze, dice che per lei questo lavoro è solo temporaneo:
“Guadagno molti soldi, molti più di quelli che avrei guadagnato nel mio paese. Posso aiutare la mia famiglia così, mantenere mio figlio, ma mica starò qui per sempre. Sono due anni che sto qui, ma me ne andrò presto.”
Aspettiamo l’ultimo risultato qui, in questo crocevia circondato di erbacce. Ci rilassiamo, ed è un sollievo amaro, come tutte le notti in strada.
“Tutto negativo, cara. Tutto bene. Continua così. Ci vediamo tra tre mesi.”
Abbiamo finito. Alla rotatoria non c’è nessuno. Adesso facciamo inversione e ce ne torniamo a casa.
Rimettiamo in moto il camper, e ci dirigiamo verso il bar insieme ai volontari, dove tutti insieme facciamo colazione. Colazione alle tre e mezza di notte, con il cornetto che non va né su né giù, ed il caffè decaffeinato. Non si tratta di averne davvero voglia, ma di chiudere insieme la notte davanti ad un bancone illuminato, circondati dal vociare di persone che hanno passato una notte diversa dalla nostra, magari bevendo in compagnia. Ci guardiamo parlando d’altro, ma ci capiamo.
Anche stanotte, come ogni notte.