Quando la dipendenza patologica da sostanze di un figlio travolge la vita di tutta la famiglia ed in questo caso di una madre, che racconta cosa si prova e lancia un concetto drammaticamente vero:

Siamo dipendenti patologici di secondo grado.

Non “assumiamo” altro che i nostri figli, fratelli, mogli, zii e chiunque altro sia legato a noi da una relazione di amore. Assumiamo senza scampo la loro dipendenza, per osmosi psicologica e morale.

Difficilmente si sente parlare delle famiglie altro che, nel migliore dei casi, con un senso di compatimento che in realtà è una sorta di stigma benevolo.

E’ vero: soprattutto all’inizio di un male così grave non capiamo, restiamo disorientati, non sappiamo cosa fare, sbagliamo, proviamo a capire, a volte chiediamo aiuto a volte ne siamo incapaci, accompagniamo, rifiutiamo, ascoltiamo senza imparare, impariamo scoraggiandoci, ci nascondiamo per nascondere la nostra condizione agli altri.
Tutti, tutti, soffriamo.

Tramutare la sofferenza in un nuovo assetto esistenziale è difficilissimo: prendere coscienza, non rinunciare alla speranza, riuscire a governare comunque la propria vita, il proprio lavoro, perché quasi sempre non c’è nessuna misericordia né morale né materiale per i dipendenti patologici dai propri familiari. La vita “normale” va avanti con o senza di noi, noi che annaspiamo per controllare gli aspetti più costanti e terribili di questa condizione: la paura e la solitudine.

“L’approccio umanitario” è anche questo: non compatire, non biasimare ma accogliere con serenità le persone che si trovano in una delle tante condizioni di difficoltà che la vita può comportare. E, come in altre patologie gravi, tenendo ben presente che il paziente “contagia” l’intero gruppo che appartiene alle sue relazioni affettive.
Questo è tanto più vero quando si dimentica la peculiarità di questa patologia: cronica e recidivante.
Il recidivo, il “ricaduto”, appare ai propri affetti come un “senza speranza”: un buio definitivo.

Ed è in quel momento che, i fortunati che hanno avuto sostegno e incoraggiamento dall’approccio umanitario, diventano “comunità diffusa”. Sono proprio i dipendenti patologici di secondo grado che cercheranno di mettere in opera quanto hanno ricevuto, quanto hanno appreso. Che cercheranno di limitare il danno, di non perdere il contatto, di riuscire lentamente e ostinatamente a trasformare il fondo del burrone in un sentiero più percorribile, nella speranza di saper cogliere l’attimo in cui si apre la porta della possibilità di cura e, per quanto possibile, si impegneranno a farlo ricordando la serenità dell’accoglienza.

Uso la parola “serenità” non a caso: ritengo che nel principio di Umanità sia compresa anche la capacità di riaprire una zona che sembra preclusa in queste situazioni. Drammatizzare, parlare violentemente degli scenari medici, psicologici, sociali, non è utile. Siamo già tutti perfettamente in grado da soli di immaginare il peggio, con o senza conoscenza scientifica. Quello che non sappiamo fare o che non riusciamo a perseguire con continuità, è proprio saper affrontare la questione da un punto di vista diverso da quello del dolore e, spesso, della disperazione.

Non sarò mai abbastanza grata al Dott. Giulio Marasca che prima ancora del nostro contatto con Villa Maraini seppe, con la sua umanità e la sua generosità nel costruire iniziative di serenità, tenderci una mano per uscire dal senso di solitudine e marginalità. E al cuore, alla coscienza e alla sapienza e umanità del Prof. Barra che ha dato vita a Villa Maraini, debbo infinita gratitudine per quel pochino di equilibrio che credo ancora di avere. Grazie al lavoro di TUTTI, perché chiunque sia impegnato qui, ognuno con la propria funzione diretta o indiretta verso gli utenti, sta lavorando per migliorare la nostra vita. Grazie a tutti gli operatori del CPA, di SPOT, della Comunità e comprendo in questi anche chi purtroppo è stato riportato lontano da qui ma che in una fredda mattina abbracciò mio figlio dicendogli: “Adesso non ti preoccupare. Lavoriamo insieme e troveremo una soluzione. Intanto stiamo qui insieme.”, rendendoci all’istante meno persi e sgomenti.

Prof. Barra: non ci sono sufficienti “grazie” per Lei, per quanto ha fatto e insegnato a tutti noi.

I.

25 dicembre 2024

a cura di Stefano Spada Menaglia
Area Comunicazione Villa Maraini-CRI